Dal punto di vista normativo in Italia una loro definizione fa riferimento alle norme del Codice civile, dal 1942, agli artt. 822 e seguenti. Nel 2007 è stata istituita una Commissione ministeriale per dettare una più moderna normativa di riforma del codice civile. La commissione, voluta da Clemente Mastella e presieduta da Stefano Rodotà, ha presentato al Senato della Repubblica un disegno di legge delega, che non è mai arrivato alla discussione parlamentare.
In quel disegno di legge venivano descritti come “beni comuni“, sul piano giuridico, quei beni «che non rientrano stricto sensu nella specie dei beni pubblici, poiché sono a titolarità diffusa, potendo appartenere non solo a persone pubbliche, ma anche a privati. Ne fanno parte, essenzialmente, le risorse naturali, come i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; le altre zone paesaggistiche tutelate. Vi rientrano, altresì, i beni archeologici, culturali, ambientali».
Si era poi prevista «una disciplina particolarmente garantistica di tali beni, idonea a nobilitarli, a rafforzarne la tutela, a garantirne in ogni caso la fruizione collettiva, da parte di tutti i consociati, compatibilmente con l’esigenza prioritaria della loro preservazione a vantaggio delle generazioni future. In particolare, la possibilità di loro concessione a privati è limitata. La tutela risarcitoria e la tutela restitutoria spettano allo Stato. La tutela inibitoria spetta a chiunque possa fruire delle utilità dei beni comuni in quanto titolare del corrispondente diritto soggettivo alla loro fruizione».
Rispetto ai beni pubblici di appartenenza a soggetti pubblici, la proposta elaborata dalla commissione «abbandona la distinzione formalistica fra demanio e patrimonio, e introduce una partizione sostanzialistica, distinguendo i beni pubblici, a seconda delle esigenze sostanziali che le loro utilità sono idonee a soddisfare, in tre categorie: beni ad appartenenza pubblica necessaria; beni pubblici sociali; beni fruttiferi»
L’attuale mancata finalizzazione normativa -che non è causate, ma deriva dalla mancanza di volontà politica per pressioni lobbistiche- fornisce comunque un orientamento condiviso verso una gestione di tali beni a favore dell’interesse collettivo e non particolare. Questo si traduce nel fatto che i beni comuni non possono essere oggetto di mercimonio e profitto da parte di una categoria particolare, come per esempio quella degli azionisti rispetto alla collettività. Questa idea di bene per l’interesse collettivo -che si ritrova in concreto nelle regole di funzionamento della società cooperative originari- può essere in concreto sistetizzato in una serie di principi conseguenti, che di seguito ricordiamo.
Le cariche sociali tra cui amministratori e consiglieri non possono avere uno stipendio di gran lunga superiore (es. oltre le 4 volte) a quello medio di operai, impiegati e quadri con una certa anzianità di servizio.
i. società off-shore e fiduciarie e collegate con scatole cinesi avente sede fiscale nei paesi della black list o tax heaven.
ii. attività di triangolazioni, transfer-pricing, traffico di perfezionamento passivo e utilizzano società in perdita sistematica come bare fiscali.
iii. schermature sociali, ossia ricorso a società di cui non si riesce a risalire al vero soggetto proprietario o controllante.
Le risorse che l’azienda che gestisce beni comuni riceve da un territorio, dovrebbero essere restituite in miusura proporzionale per ricaduta sul territorio che le ha originate. In pratica quanto entra dalle bollette degli utenti di una determinato territorio, tanto dovrebbe essere reinvestito in misura proporzionale in servizi ed infrastrutture, utilizzando quando possibile fornitori del territorio di riferimento che offrono condizioni tecniche ed economiche similari.
Il principio di “una testa, un voto“, è sempre stato tipico delle cooperative in quanto l’opinione di ciascun socio rispetto alle decisioni da prendere in assemblea aveva lo stesso valore, indipendentemente dalla ricchezza, data dal numero di quote societarie possedute. In una società per azioni privata il peso del voto è giustamente proporzionale al numero delle azioni possedute. Si ritiene che in una società per azioni che tratta beni comuni, la cui proprietà è a maggioranza relativa pubblica (società partecipate), tutti gli azionisti possano essere facilitati nell’esprimere le loro decisioni in merito agli ordini del giorno posti in discussione in assemblea. Questo concetto potrebbe trovare applicazione semplicemente facendo recepire a tali società partecipate la direttiva europea 200/36/CE o Shareholders Rights Directive (SRD), che tra le altre cose permetterebbe la possibilità di far votare gli o.d.g. agli azionisti con strumenti elettronici, come per es. la posta elettronica certificata. La SRD contiene tra le norme anche un premio per chi detiene le azioni per un certo periodo di tempo, commisurato in una maggiorazione della percentuale di dividendo attribuito. La fedeltà da parte dell’azionista, verrebbe riconosciuta anche in base al progetto di legge riguardante il “voto plurimo“: in base a questo progetto di legge in futuro l’azionista che detiene l’azione per un periodo X di tempo, avrebbe diritto a due voti per ciascuna azione posseduta. Questo sarebbe visto in una logica di permettere agli enti pubblici delle società partecipate di scendere di capitale, detenendo una quota minima che si configurerebbe come “golden share”. Come Azionehera pensiamo che sia più opportuno sterilizzare ad una quota del 3% il voto riconducibile ad una unica proprietà controllante: un qualsiasi privato può acquistare quote della società, ma ha un limite di voto del 3% indipendentemente dalla quota posseduta..